Ricevere un complimento e sentirsi a disagio.
Raggiungere un obiettivo importante e pensare che sia stato solo un colpo di fortuna.
Avere paura che, da un momento all’altro, qualcuno scopra che non siamo all’altezza.
Succede più spesso di quanto si dica.
E quando succede, lascia dentro una sensazione difficile da spiegare: come se stessimo recitando un ruolo che non ci appartiene davvero.
Come se il successo non fosse nostro, ma in prestito. E prima o poi qualcuno verrà a riprenderselo.
Questo stato d’animo ha un nome che sembra uscito da un giallo psicologico: sindrome dell’impostore.
Non è una patologia, né qualcosa che si diagnostica con un test.
Ma è reale, e spesso stancante.
Più sei competente, più ti senti un bluff
La cosa più assurda è che a sentirsi “impostori” sono spesso persone capaci, scrupolose, preparate.
Persone che si mettono in discussione, che vogliono fare le cose bene, che si assumono responsabilità.
Eppure, dentro, qualcosa continua a dirgli:
“Hai solo avuto fortuna.”
“Stai barando.”
“Non sei davvero così bravo.”
È un paradosso crudele.
Più investi, più cresci… più senti di non meritare i risultati.
Da dove nasce questa sensazione?
Non esiste una risposta sola.
Conta la storia personale, certo. Ma conta anche il contesto.
Viviamo in una società che ci misura continuamente: voti, like, performance, efficienza.
L’identità si costruisce spesso sul fare, sull’essere sempre un po’ migliori.
E anche quando ce la facciamo, resta un retrogusto amaro:
“Forse ho solo ingannato tutti.”
Se ne parla poco. E questo la rende più forte.
Chi sperimenta la sindrome dell’impostore tende a non dirlo.
Per vergogna, per paura di confermare quel sospetto interiore di non valere davvero.
Ma nel silenzio, la sensazione cresce. Diventa cronica.
E così, si lavora di più per dimostrare (a sé stessi, prima ancora che agli altri) di essere “all’altezza”.
Ma non si è mai abbastanza.
Cosa si può fare?
Non esistono scorciatoie. Ma ci sono piccoli passi.
Riconoscerla è il primo.
Parlarne con qualcuno di fiducia è il secondo.
Non tanto per ricevere rassicurazioni (“Ma dai, sei bravissimo!”), ma per confrontarsi davvero.
Per vedersi riflessi in uno sguardo che non sia deformato dal filtro del giudizio interno.
La terapia, in questi casi, può fare molto.
Non per “curare” una malattia, ma per fare spazio a una versione più gentile e vera di sé stessi.
Non dobbiamo sempre dimostrare qualcosa
A volte, sentirsi un impostore è solo il sintomo di quanto ci teniamo.
Di quanto ci siamo abituati a dover dimostrare tutto, sempre.
Ma forse, non c’è niente da dimostrare.
Non dobbiamo essere perfetti per meritare un riconoscimento.
Non dobbiamo avere tutto sotto controllo per essere validi.
Non dobbiamo sentirci sicuri per avere diritto di esistere, parlare, contribuire.
Imparare a stare anche nel dubbio, senza lasciarsi definire da esso, è uno dei passi più difficili.
Ma è anche uno dei più liberatori.
Perché a volte, la vera conquista non è sentirsi sempre all’altezza.
È smettere di vivere come se dovessimo continuamente giustificarci.