Hai trent’anni e ancora non sai cosa vuoi fare?
Quante volte capita di sentirselo dire, magari con un tono ironico che suona come una mezza presa in giro. Ma dietro quella domanda, in apparenza innocua, si nasconde un’intera realtà fatta di incertezze, pressioni invisibili e aspettative sfuggenti. Una realtà che tocca da vicino moltissimi giovani adulti.
Il tema: ansia e precarietà esistenziale nei giovani adulti
Parlare di “generazione della crisi” non significa soltanto evocare la crisi economica, quella ufficiale. È qualcosa di più sottile e pervasivo. È una sensazione che accompagna, silenziosa, ogni giornata: quella di non sapere se stiamo andando nella direzione giusta. O se, in fondo, una direzione esista davvero.
È il timore costante di rimanere indietro, di perdere tempo, di fallire – anche quando non sappiamo esattamente cosa significhi “riuscire”.
Ansia e precarietà non sono più esperienze eccezionali. Sono diventate, per molti, una condizione di fondo. E proprio perché diffuse, rischiano di diventare invisibili. Normalizzate. Taciute.
Un po’ di contesto: da dove arriva tutto questo?
I nostri genitori crescevano con un futuro che sembrava scritto: lavoro, casa, famiglia, pensione. Una sequenza logica, a volte persino noiosa.
Oggi, chi ha tra i 25 e i 35 anni si muove in un paesaggio completamente diverso.
Abbiamo vissuto:
- la crisi del 2008 proprio mentre cercavamo di costruirci un futuro;
- una pandemia che ha congelato anni cruciali della nostra vita;
- un mercato del lavoro instabile, spesso umiliante per chi ha studiato a lungo;
- un confronto continuo con le vite degli altri, sempre più patinate, sempre più vincenti (almeno in apparenza).
In questo scenario, ogni scelta pesa. E ogni rinuncia si porta dietro il dubbio di aver perso qualcosa di importante. È come se fossimo costantemente chiamati a giustificare dove siamo arrivati, anche quando non abbiamo ancora capito da dove stiamo partendo.
Come funziona: un circolo difficile da spezzare
La precarietà non è solo una questione economica. È uno stato mentale. Quando niente è certo, tutto è potenzialmente minaccioso. Casa, lavoro, relazioni, progetti: tutto sembra instabile, e questo logora.
Ogni decisione sembra definitiva. Ogni incertezza, una colpa personale.
La sequenza si ripete spesso così:
precarietà → ansia → blocco → altra precarietà.
E il più delle volte non si vede da fuori. Si continua a “funzionare”: si lavora, si risponde ai messaggi, si fa la spesa. Ma dentro, qualcosa si inceppa. E lì cresce il dubbio: sono io il problema?
Psicologia e precarietà: cosa accade dentro
La psicologia non offre soluzioni magiche, ma può aiutarci a dare un nome a ciò che accade. L’essere umano ha bisogno di stabilità. Senza riferimenti esterni solidi, dobbiamo costruire da soli il nostro centro.
Ma farlo in un contesto che chiede tanto e restituisce poco è estenuante.
Il cervello, in presenza prolungata di incertezza, può attivare una modalità di "allerta continua". Dormiamo peggio, pensiamo troppo, ci sentiamo svuotati. Inizia a mancare il senso, e quando manca quello, anche le azioni più semplici sembrano perdere significato.
In più, siamo immersi in narrazioni che ci vogliono sempre forti, sempre ottimisti, sempre “sul pezzo”. Dire che si sta male è quasi un atto di disobbedienza.
Uno sguardo sul presente
Lo sappiamo: di questi argomenti si parla da anni. Non sono nuovi, e qualcuno potrebbe perfino dire che sono diventati moda.
Ma proprio per questo rischiano di essere banalizzati, etichettati come “la solita lamentela”. E invece no: meritano attenzione, ancora.
Non serve una lista di cose da fare per “uscire dalla crisi”.
Quello che serve, forse, è prendersi il tempo di guardarci dentro senza giudizio. Accettare che in questo mondo fluido è difficile orientarsi. Che sentirsi spaesati non è un fallimento, ma una reazione umana e legittima.
A volte, nominare la fatica è già un modo per fare spazio a qualcosa di diverso.
Non per eliminarla, ma per abitarla in modo più consapevole.
Non per trovare subito una risposta, ma per restare con la domanda.
Conclusione aperta: una generazione da ascoltare
I giovani adulti di oggi non sono fragili, sono esposti.
E in questa esposizione stanno trovando forme nuove di forza, anche se non sempre riconosciute.
Forse non hanno certezze. Ma hanno sguardi critici, idee nuove, desideri di senso.
Forse si sentono in crisi. Ma proprio lì, nella crisi, stanno imparando a crescere.
Non secondo vecchi modelli, ma cercando strade autentiche, spesso fuori dalle rotte battute.
Forse è proprio da qui che può nascere un cambiamento: dal riconoscere che questa generazione, pur tra mille fatiche, sta riscrivendo le regole.
E merita ascolto, spazio e strumenti per costruire un domani più solido.
Anche dentro di sé.